Non siamo indispensabili
Mi piace quella frase di Georges Clemenceau che dice che il cimitero è pieno di persone indispensabili.
Evidentemente, il mondo sta andando avanti anche senza di loro.
Nella nostra esperienza di vita, invece, spesso ognuno di noi si è sentito o si sente proprio così come non è: indispensabile.
Cosa succede se non porto a termine questo progetto, cosa penseranno gli altri se mi comporto in questo modo, ho una grande responsabilità e la mia presenza è necessaria: convinzioni leggermente influenzate dal fatto di vivere, fisicamente, al centro e all’interno del nostro mondo, e di guardare il mondo, appunto, da dentro a fuori.
Personalmente in più occasioni nella mia vita sono stato messo di fronte al fatto di non essere indispensabile per nulla, e devo dire che questa consapevolezza mi dona una grande serenità e libertà.
Sono grato, per esempio, a quelle volte in cui, da bambino, le maestre mi mettevano in punizione, durante l’intervallo, e mi facevano stare seduto su una panchina, senza potere giocare con gli altri, e senza che nessuno mi si potesse avvicinare.
Mi accorgevo, in quei lunghi intervalli, che i miei amici potevano giocare e divertirsi anche senza di me, non meno di come avrebbero fatto se io fossi stato presente e partecipe e che, anzi, non si accorgevano nemmeno della mia assenza.
Nell’ultimo post ti ho raccontato di come una mia crisi personale abbia causato una crisi dell’azienda che io stesso avevo fondato, e di come di fronte a quella crisi io abbia deciso di non mettermi al centro della sua risoluzione: avevo la consapevolezza, infatti, di non essere per niente indispensabile e che la cosa migliore che io potessi fare, in quel momento, era non fare niente, e le ragioni erano più di una.
La prima era proprio il fatto che non stavo bene e che stressarmi, mi era chiaro, mi avrebbe solamente portato a stare peggio, e questo non era di beneficio per nessuno: avevo invece tremendamente bisogno di distrarmi, di recuperare le energie perse, di sentirmi a contatto con me stesso, e solo se fossi stato in grado di ritrovarmi sarei poi potuto tornare a fare la differenza in azienda, o almeno a provarci.
La seconda era che non ero lucido: qualunque decisione sarebbe da me stata presa in maniera emotiva, all’interno di un abito d’ansia, e sarebbe stata probabilmente sbagliata. Il mio team era invece composto da persone di cui avevo fiducia, e sapevo che sarebbero stati più adatti di me per gestire un periodo tumultuoso come quello nel quale eravamo.
Le terza, forse la più importante, era che la mia scarsa serenità era un messaggio che non potevo permettermi di far passare all’interno: ero consapevole, infatti, che dialogare con il mio team, o anche solo mostrarmi in ufficio, avrebbe contagiato emotivamente in senso negativo le persone che in quel momento stavano invece lottando, coltello tra i denti, per sistemare le cose.
Penso che se avessimo più fiducia nel fatto che il mondo non dipende da noi, che non siamo nemmeno lontanamente indispensabili e tantomeno i più bravi, potremmo concederci più spesso il lusso di stare bene: così facendo, potremmo produrre maggiore valore nel tempo per noi stessi e per gli altri.
Se ti piace questo blog ti può piacere anche il mio libro: si chiama La tua idea non vale nulla ed è un po’ un manuale, un po’ una narrazione, un po’ una serie di consigli e punti di vista su come fare impresa e farlo bene.
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