Non credo più nel lavoro che faccio: che faccio?
Sabrina, una lettrice di questo blog, mi ha chiesto cosa succede quando si perde “il credo” in azienda, nel lavoro, nei progetti che si portano avanti: perché avviene, e cosa comporta quella perdita di fiducia, di interesse, di entusiasmo per la causa per la quale si lavora ogni giorno, e per l’azienda e il luogo nel quale, più o meno fisicamente, ci troviamo a passare una gran parte di tempo?
Quali sono, infine, le conseguenze morali e pratiche di una situazione del genere che in fondo, qualche volta, a tutti noi è capitato di vivere?
Si tende a pensare che questa situazione dipenda in gran parte dall’azienda per la quale si lavora ma in realtà ha a che fare più che altro con noi, con il modo in cui nel tempo cambiamo interessi, obiettivi, visione del mondo e opinioni sulle cose che ci circondano e che noi circondiamo.
Infatti, perdere il credo per il proprio lavoro, e provare quel senso di frustrazione e di instabilità tra la voglia di andare e la paura di non restare, non riguarda in maniera esclusiva o prevalente i lavoratori dipendenti da un’azienda ma è una sensazione che può abbracciare ogni categoria di lavoratori - imprenditori e lavoratori autonomi inclusi - e qualsiasi tipo di professione, dall’impiegato al medico, dal calciatore all’influencer, dalla rock star all’avvocato.
Ma perché succede, e come evitarlo? E, davvero, è necessario evitarlo?
Personalmente, devo dire che più che da questo fenomeno sono stupito da quello opposto: com’è possibile che ciascuno di noi nella maggior parte delle nostre giornate - e proprio nei giorni stabiliti da una consuetudine e da un contratto - si alzi dal letto e lavori con entusiasmo e passione? Com’è possibile che molti, per anni, conducano lo stesso lavoro, e lo fanno davvero sempre con la stessa voglia e energia?
Se, come in molti direbbero e come non credo che sia, si lavora primariamente per la necessità di arrivare alla fine del mese e dell’anno, e quindi per soldi, non ci sarebbe un motivo per quella perdita di entusiasmo che non derivi da una diminuzione improvvisa del reddito: invece, il più delle volte, sono altri gli aspetti che determinano quel sentimento.
Il primo: il contenuto e l’oggetto del nostro lavoro.
A un cuoco dopo dieci anni può non piacere più cucinare, perché magari ha scoperto una nuova passione o si è semplicemente stancato, così come un contabile appassionato di dati e finanza aziendale può a un certo punto scoprire una vena creativa e volersi sperimentare in una forma diversa.
Il secondo: lo stile di vita.
Un giovane fotografo può amare viaggiare ed essere ogni settimana in un posto diverso, senza ritmi definiti e regolari, con una grandissima sensazione di libertà di fronte a sé. Successivamente, però, dopo aver costruito una famiglia o avere dei figli, potrebbe desiderare una maggiore stabilità, e incominciare a detestare proprio quella cosa che prima lo faceva sognare.
Il terzo: lo scopo del nostro lavoro, il fine, o come si dice oggi il purpose.
Crediamo o non crediamo nei valori che la nostra azienda o il settore in cui lavoriamo rappresenta, e i nostri valori sono rimasti ancora gli stessi dieci anni dopo?
Un marketer, per esempio, potrebbe amare la creatività e l’analisi ma potrebbe, ad un certo punto della vita, interrogarsi se davvero vuole dedicare se stesso nel promuovere uno stile di vita consumistico e un certo tipo di società, o se invece i suoi valori magari non vadano in direzione opposta.
Il quarto: le relazioni che attraverso il lavoro generiamo e manteniamo con altre persone.
Condividere gli stessi valori, la stessa sensibilità, la stessa ironia e umorismo con i nostri colleghi o con le persone con le quali passiamo il tempo lavorativo ci fa stare bene, ci fa sentire a casa, ma a un certo punto potrebbero cambiare le persone, o le persone potrebbero cambiare, e con esse la nostra sensazione di benessere e un improvviso bisogno di creare relazioni nuove in un ambiente diverso.
Quando per una o per più di queste cause questo fenomeno avviene, in qualche modo ci destabilizza.
Tuttavia, non c’è niente da temere o da evitare, anzi: è qualcosa che va accolto e accettato. Perché è solo ascoltando quel mal di pancia, spesso, che possiamo evolvere, e perché è solo dando seguito a quel sentimento di frustrazione che possiamo scoprire al nostro interno una persona che prima non sapevamo ci fosse, e a cui vogliamo dare lo spazio ed il tempo di esprimersi adesso, senza condizionarlo con le paure di qualcuno che forse, in realtà, non esiste già più.
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