Didattica in presenza
Questa settimana ho iniziato per il terzo anno il mio corso in imprenditoria all’Università di Padova.
Nonostante l’Italia stia vivendo in zona rossa, e con lei otto milioni di studenti siano nuovamente relegati davanti a uno schermo nelle loro camerette, ho concordato con l’Università, come previsto dai regolamenti, di poter tenere la mia classe in presenza.
Devo dire che tirarli fuori dalle loro case, vedere i loro occhi e le loro espressioni, vederli prolungarsi a chiacchierare durante le pause, restituirgli di fatto un briciolo di normalità mi fa sentire bene, mi restituisce energia, vita.
Ripenso ai ragazzi che seguivano questo stesso corso due anni fa: con alcuni di loro mi capita ancora di scrivermi, ogni tanto, o di incontrarci casualmente per strada.
Quelli dell’anno scorso, invece, non li ho mai visti in faccia, mai conosciuti: la crisi sanitaria era appena iniziata e con lei le politiche di confinamento, la didattica a distanza, le camere dei computer spente, l’interazione ridotta al minimo rispetto a quello che avviene nelle classi, camminando tra i banchi.
Penso che, nonostante non lo si voglia dire, le nuove generazioni siano una delle categorie che più sta pagando le conseguenze di un virus che, statistiche alla mano, le riguarda meno rispetto ad altre.
Penso che, nonostante non lo si voglia dire, la classe dominante nel mondo, i vecchi, stia di fatto spostando il peso delle misure di contenimento maggiormente sulla categoria che non ha possibilità di decidere, i giovani, e che questo stia avvenendo non solo sul piano politico, ma anche su quello mediatico.
Mi chiedo quali sarebbero le misure se il potere fosse in mano ai più giovani: mi chiedo se le scelte sarebbero state le stesse, e se i danni non sarebbero stati minori, tutto sommato.
Sia chiaro: la salute è una cosa serissima, e chi scrive è la stessa persona che più di un anno fa, ben prima che il governo obbligasse le aziende e i lavoratori al lavoro da casa, aveva già chiuso l’azienda, già applicato le misure di lavoro a distanza. La notizia della presenza del virus in Italia era infatti arrivata un venerdì di febbraio, e il lunedì seguente, tre giorni dopo, la mia azienda era già interamente a distanza per tutelare tutti.
Lo smart working (quello vero) per noi era una realtà ben prima della pandemia, e sono convinto che anche nelle scuole e nelle università un approccio alla didattica smart, che consenta alle persone quando ne hanno necessità di collegarsi da casa alle aule, che mantenga eventualmente alcuni corsi esclusivamente online, che doni equilibrio e integrazione tra fisico e digitale, sia assolutamente il futuro dell’istruzione, e dell’educazione, anche oltre la pandemia.
Ma i ragazzi hanno bisogno anche dei corridoi, non solo delle lezioni.
Le scuole e le università non servono soltanto per stare sui libri o ascoltare un professore, ma per socializzare, per fare esperienza di vita, di relazione, per sviluppare le proprie competenze umane, per contaminarsi, conoscersi, esprimersi nel mondo.
Quanta forza e quanta pazienza hanno questi ragazzi davanti a me: meritano il massimo impegno da parte di tutti noi per restituirgli non solo il futuro, ma soprattutto il presente.
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